Presentiamoci

by Aisha

Cosa vuol dire lavorare con l’arte?

Cosa vuol dire “contribuire” allo sviluppo sociale? 

Ma, soprattutto, si può lavorare con l’arte contribuendo allo sviluppo sociale? 

Queste sono le domande che mi sono posta quando ho cominciato a realizzare, dopo vent’anni di carriera come pianista e compositrice, che l’autoreferenzialità che permea la vita dell’artista non mi era del tutto congeniale; in parte perché andava ad incrementare un ego che andava al contrario piuttosto limitato ed in parte perché non ho mai creduto fino in fondo che il marketing estremo del proprio operato artistico sia un grande contributo allo sviluppo sociale. 

E beh, dirà qualcuno, e quindi qual è il problema?

Il problema è quello che lasciamo. Il problema è il solco che rimane del nostro passaggio e quanto di quello che facciamo come artisti sia effettivamente necessario al tessuto sociale nel quale esistiamo.

L’artista ha un talento, ma soprattutto ha una missione, che dovrebbe avvertire egli stesso come primaria: veicolare dei contenuti di riflessione e catarsi ed al contempo, a mio avviso, farsi bandiera di un approccio autoironico essenziale in un momento così decadente quale quello attuale per poter giungere al cuore e alla mente, per dirla in modo volgare, di chi si riveste di uno scudo di cinismo per difendersi anche da questa forma di “attacco” pacifico che è l’arte.

Al contrario, è agendo in modo solipsistico che l’artista finisce con il diventare vittima del suo talento e dimentica la sua mission, finendo per far coincidere la sua identità con l’opinione che vede riflessa di sé da parte degli altri. 

La percezione delle proprie doti artistiche come sacre, l’imposizione dei propri progetti sul mercato come necessari, la rilevanza che il giudizio degli altri riveste sulla propria opera, sono caratteristiche dannose e ben lontane da quella mission di altruismo e di esaltazione del “tu” di cui questa società ha bisogno dall’arte. 

E, solo dopo l’aver esperito queste inutili privazioni di luce che mi sono resa conto che non stavo facendo un buon uso dell’arte e del talento che comunque con tanta abnegazione e si, bisogna dirlo, ambizione, fino a quel momento avevo coltivato. 

Ed ecco che, alla soglia dei quaranta, si fecero strada delle necessità che mi portarono un po’ alla volta ad osservare con più reale attenzione ciò che accadeva fuori di me.

Non tanto a “sapere” che c’è la diversa abilità, la violenza di genere, lo sfruttamento ambientale ed energetico, le guerre, la mafia, la depressione e tutto il resto che potremmo elencare a lungo, ma... a viverlo e percepirlo. 

Vivere come se quell’altro, fuori di me, fossi io. Che fosse una persona, un albero, una donna, un bambino, un clochard, un immigrato, una prostituta, un manager in carriera, un carcerato, un pesce pieno di plastica, una persona con problemi mentali o un alcolizzato, cercare di percepire quell’essere come se non fosse diverso da me, perché in fondo, entrambi nella stessa barca. Tutti frutti della stessa società e, badate bene, non si fa politica in questo blog, semmai si può affermare che queste considerazioni si avvicinino di più ad una visione “spirituale” (anche se in realtà, basterebbe forse dire “sociale”). 

In un’ottica più generale quindi, ho cercato di togliere la lente di ingrandimento dal mio “piccolo”esistere cercando di dare uno sguardo di insieme più corposo e reale e..ho sofferto.

Ho sofferto del tempo perso, o meglio, ho sofferto di una parte del tempo non investito a fare di più, in ottica di quella mission artistica di cui si è parlato prima. 

Ora, chiariamo un punto: non sto scrivendo che tutti gli artisti dovrebbero suonare solo nelle carceri, fare buskering (oltretutto attività molto complessa se ben fatta) o fare volontariato. No, non è questo che sto scrivendo. Non ho nulla contro la progettualità.

Qui si discutono i molteplici aspetti della professionalità ineluttabilmente legati alla mission sociale dell’arte. 

Sto affermando con convinzione, che il vivere con gli occhi di un Van Gogh, o di un Munari o per lo meno provarci, rende l’arte che vogliamo veicolare ben più potente di quella che pensiamo di veicolare quando in realtà spesso il desiderio recondito è di solleticare l’ego e “darsi un tono”. 

E di questo, bisogna accorgersi, è importante.

Perché in quest’ottica virtuosa, si verificano due azioni contemporaneamente: cresciamo noi come artisti e usiamo l’arte come mezzo di trasmissione sociale e non di mera espressione personale ed urgenza espressiva dell’amore perduto.

Ecco che non sto più dipingendo il vecchio per come è ma anche per come lo vedo e come vorrei che li altri lo vedessero. C’è una speranza, in questa forma di arte, non solo una denuncia o uno sfogo.

Se sto osservando un pesce morto con della plastica in pancia, sto percependo quello che mangio, quel pesce sono io, non è solo una condivisione di un social dopo il quale esclamo la mia tristezza agli amici prima dell’aperitivo.

Avere una mission, significa farsi mission. Con tutto quello che comporta, nel bene e nel male.

Non ci può esser superficialità in questo, certo. Però ci può essere autoironia, conoscenza, ricerca, comunicazione e molte volte anche un pizzico di leggerezza.

Non dobbiamo temere l’arte, non dobbiamo temere chi veicola l’arte, pensando che possa essere “pesante”. Se non capite qualcosa, fatevelo spiegare.

Sarà sempre meglio di quelli che vanno alle mostre e alle rappresentazioni e stanno tutto il tempo fuori a chiacchierare senza percepire nulla di quello che sta avvenendo nel luogo espositivo o performativo. 

Chiedete, un artista che lavora in questo modo, sarà felice di spiegarvi o di darvi qualche chiave di lettura di ciò che sta avvenendo.

Non esiste un buon artista che non ami comunicare, seppur a modo suo, con il fruitore seriamente incuriosito, così come non esiste un buon organizzatore che non sappia godere dell’arte in modo autentico e profondo. 

In questo caso, “buon” è utilizzato diversamente da “bravo”.

Di bravi artisti e bravi organizzatori è pieno il mondo; ma di “buoni” artisti e “buoni” organizzatori, fateci caso. Il rapporto con l’arte, di qualsiasi tipologia di arte si stia parlando, richiede autenticità, donazione di sè, profondità, autoanalisi, umiltà, caparbietà, dolcezza e ricerca.

Diffidate di colui che organizza qualcosa senza sapervelo descrivere in modo dettagliato. Certo, se vi avvicinate all’artista immediatamente prima o dopo un atto performativo, non è una grande idea. Ma d’altro canto, voi vorreste che qualcuno vi riempisse di domande un minuto prima di entrare in ufficio o subito dopo che uscite dal vostro luogo di lavoro? In questo blog, magari parleremo anche di questo. Spesso si dice che “gli artisti sono particolari, strani o bizzarri”; io ritengo invece che siano degli esseri umani che vivono la parte espressiva dell’inconscio in modo spiccato, hanno accesso ad alcuni lati dell’espressività a cui forse non tutti hanno accesso per diversa quotidianità e abitudini. 

Ma quante volte incontriamo persone di incredibile sensibilità che non sanno di arte e per contro, sedicenti artisti che non sanno molto di sensibilità? 

Per portare l’arte nella società, bisogna entrare nell’una e nell’altra. Per entrarci, bisogna voler ascoltare e osservare, identificarsi e, per quanto possibile, cercare di non giudicare né giudicarsi. Arte e società sono due facce della stessa medaglia, l’una non esiste senza la conoscenza dell’altra. 

Quante polemiche sto leggendo in alcuni dei vostri occhi! Ok, avete ragione, è comprensibile che qualcuno che è capitato qui e sia giunto fino a questa novecentosessantesima parola, non stia ben comprendendo se questo Fusmart vende dei servizi artistici o se fa parte di qualche setta spirituale non ben identificata. 

Vi assicuro; è assolutamente la prima, con tanto di partita iva, portfolio ben nutrito e partnership importanti e, se me lo chiederete, vi invierò anche il mio CV. 

E’ che vedete, visto che questa piccola impresa culturale è la mia ditta, frutto di un ventennio di carriera su diversi palchi e con svariate migliaia di persone di fronte a me, è nata proprio per osteggiare l’inutilità di quella sensazione che ti fa dire: “e dopo”? “e adesso?” 

Il discorso è che “è sempre adesso”. E’ adesso per me, per te, per tutti. E, considerando che la mia specializzazione primaria è l’arte e la seconda laurea che sto conseguendo è una magistrale in “Cultura, formazione e società globale”, ho deciso che potevo dedicare la seconda parte della mia vita ad una cosa che non mi è venuta perfettamente nella prima: gli altri. 

Si, è il mio lavoro; si, sono una professionista; sì, ci pago la macchina, la casa, le bollette e il make up e i viaggi ed il cibo per cani e le scarpe e le strumentazioni e tutto il resto.

Sì, sì e sì.

E volevo che tu sapessi, tu che sei arrivato fino a qui, che Fusmart è frutto di venti anni di gavetta, carriera, studio, preparazione e che nessuno che capita di fronte a me è un numero a cui vendere un evento. 

Ma è un essere umano o un gruppo di lavoro che potrebbe aver bisogno di una mano nel far correre un po’ la fantasia, citando ancora il buon Munari, rimettere in moto la creatività e credere che l’originalità, non è inventare qualcosa di nuovo ma è un modus operandi nel quale non aspettarsi nulla tranne che il fatto di ricercare. 

Nato come primo articolo di un blog di un’impresa artistica, diventato un modo per conoscerti e stringerti la mano virtualmente, si è fatto leggere spero con la stessa velocità con cui l’ho scritto, perché, nonostante tutto, la torrenzialità continua ad essere per me un elemento artistico irrinunciabile! 

 

Buon proseguimento a tutti 

Aisha Ruggieri

Direttore Creativo di Fusmart